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E se lo Smart Working funzionasse davvero?

In questi giorni stiamo assistendo alla diffusione quasi totale dello smart working, o a quello che così viene chiamato.
Ricordiamo che normalmente la possibilità di svolgere il proprio lavoro da casa o da altra sede era prevista per 
mediamente 1 giorno la settimana.
La diffusione, per quanto 
possibile vista l’entrata in vigore nel maggio del 2017, è ancora limitata ad aziende di grandi dimensioni che hanno sviluppato progetti di digital innovation di una certa consistenza. Alla fine del 2019 si contavano circa 600 mila smart workers su oltre 23 milioni di occupati circa il 2,5%, senza contare le iniziative non strutturate.
Piccoli numeri per considerare lo smart working un fenomeno dilagante.
 

I detrattori del lavoro agile ritengono che possa essere un sistema iniquo e che non consenta di controllare adeguatamente la produttività del lavoratore lasciando spazio a fannulloni legittimati dal datore di lavoro. Per questo assistiamo a casi paradossali per cui i meccanismi di controllo risultano più pressanti per il lavoratore a casa di quelli che sono in ufficio: esistono sistemi che verificano quanto il lavoratore ha avuto il computer connesso ai sistemi aziendali e se ha svolto attività, sistemi di punteggi consentono di posizionare e verificare il singolo lavoratore con il numero di pratiche svolte, obiettivi quotidiani e settimanali. Una serie di controlli che abitualmente non si attuano quando le persone lavorano in ufficio! 

Non rispettare l’orario di lavoro e quindi svolgere la propria attività anche in orari inconsueti o al sabato e alla domenica sono indubbiamente vantaggi per il lavoratore che può bilanciare la vita lavorativa con quella privata (vero e unico obiettivo della normativa che porta indirettamente ad aumenti presunti o reali di produttività).  

In realtà attuare lo Smart Working significa ripensare il lavoro in un’ottica intelligente che mette in discussione i tradizionali vincoli legati a luogo e orario lasciando alle persone maggiore autonomia e flessibilità nel definire le modalità di lavoro favorendo una maggiore responsabilizzazione sui risultati, valorizzando i talenti e rafforzando la fiducia. Ciò che necessita è avere un quadro di obiettivi chiari e relazioni efficaci con responsabili e colleghi. 

Atteso che il controllo è possibile a casa anche nel caso di attività assegnate (obiettivi) e scadenze, che c’è la possibilità di fare briefing per lo stato di avanzamento delle attività senza perdere tempo negli spostamenti, sarebbe interessante verificare post corona virus se la produttività si è effettivamente azzerata o le persone delle aziende hanno comunque trovato il modo di lavorare. 

L’innovazione digitale è ormai inevitabile i dati Istat ci dicono che nel 2019 il 76% delle famiglie dispone di un accesso ad Internet, il 95% se in casa c’è un minorenne il 34% se in casa ci sono solo ultra sessantacinquenni. La maggior parte delle imprese dispone già di sistemi così detti web based, cioè che permettono di accedere ai sistemi anche da remoto. Ma allora cosa ferma la diffusione dello smart working? 

In primis la conoscenza dell’utilizzo delle potenzialità delle tecnologie già in possesso delle aziende. Una banale licenza di Office 365 offre ampie soluzioni di contatto e scambio di dati informazioni con una potenzialità incredibile. Spesso sconosciuta o se conosciuta scarsamente utilizzata.  

Ma ivero scoglio è e rimane il passaggio culturale che i manager devono fare verso l’innovazione digitale (il cosiddetto digital dividee la flessibilità del lavoro.
È prima un fatto generazionale, abbiamo
spesso ai vertici delle imprese persone formate nell’epoca della retribuzione basata sul tempo a disposizione, epoca in cui lo straordinario era una forma ben vista di incentivo economico al bravo lavoratore. Seppur non politically correct le persone vengono prevalentemente pagate per il tempo in cui stanno in ufficio e non per i risultati che portano.
Per comprovare questa scomoda notizia basta vedere i dati Ocse della presenza al lavoro in cui si legge che Germania e Danimarca lavorano mediamente 26 e 27 ore settimanali contro le 33 dell’Italia. Lavoriamo più del Giappone
, Paese da sempre famoso per la permanenza al lavoro e meno del Messico non certo noto per la sua produttività (più per le sieste). 

Le parole chiave per il manager dovrebbero passare da “controllo” a “fiducia, da “a che ora entra/esce” a “chi è e cosa fa”, da “posto fisso a “scrivania nomade”! 

Ma che succede se post crisi epidemica ci rendiamo conto che abbiamo lavorato bene anche da casa?
Che succede se comprendiamo che il livello di controllo che abbiamo avuto sul lavoratore a casa non è molto diverso di quello che sta in ufficio?
Che succede se per la necessità del momento siamo diventati tutti esperti di video chiamate, accesso da remoto e riunioni virtuali?

Succede che inquineremo meno per spostarci inutilmente, avremmo più tempo per lavorare davvero (e per stare con i nostri cari), che i luoghi di lavoro possono essere convertiti in coworking, che possiamo evitare di stampare tonnellate di carta e magari ci scopriremo un paese più produttivocon meno giorni di malattia e meno infortuni.

Questa sarebbe una bella rivoluzione!